La tragedia del mondo nella poesia civile di Giovanni Pascoli Fuori commercio
Enrico Turolla

La tragedia del mondo nella poesia civile di Giovanni Pascoli

  • 1926
  • Note: In 16°, pp. XXVII-240. Contiene: "1. Pascoli maggiore e Pascoli minore - 2. Simbolismo ideale e formale in "Odi e Inni" - 3. La vetta gelata - 4. La metrica in "Odi e Inni" - 5. I Poemetti compresi in "Odi e Inni". Dall'Introduzione: "Nella vita del Pascoli trovi una quantità di fatti di cui finora non è stato tenuto conto, c'è la possibilità di vedere la figura di questo poeta sotto una luce diversa da quella comune? Il figlio di Virgilio, il poeta idillico, il poeta dell'infanzia, il cantore puro e limpido d'un mondo che è piccolo sì, ma che in realtà è ben grande. Questo è, in genere, quello che si dice del Pascoli. - E ancora: un poeta di forma perfettissima, in cui, anzi, il problema formale o estetico ha un'importanza assoluta; un umanista. Anche questo si dice. - Questo è, mi pare, l'aspetto facile; si vede subito così. Ma è la realtà? È tutto il Pascoli codesto? A quel poeta che scrive in latino così bene è facile dare tutto un contenuto spirituale che non trascenda quello che è il carattere dell'umanesimo o del rinascimento: una esclusiva preoccupazione estetica; della vita, l'apparenza riflessa in una forma più limpida e la più perfetta possibile nell'opera d'arte; nullo, o per lo meno secondario, il riflesso di una preoccupazione etica interiore, d'un contenuto filosofico che sia l'espressione d'una meditazione, d'un carattere profondo, sempre eguale come tono intimo e inconfondibile. (...). - Se tu guardi la vita di questo nostro Poeta e osservi in sintesi le caratteristiche di quel fiore della vita che è il canto, tu vedi che nel Pascoli, sia nella prassi dell'esistenza e sia nel cantare del poeta, si raccolgono, trasformate in elementi di esperienza personale, talune caratteristiche di tre poeti, particolarmente, che lo precedettero nel cammino della vita: Orazio, Petrarca, Leopardi. Di Orazio poco trovi nel canto, ma trovi la sua vita trasformata nella vita del moderno, trovi nel Pascoli il desiderio della rinuncia alla lotta dell'esistenza e l'aspirazione ad affrancarsi dal dolore dell'essere in una vita nascosta lungi dall'azione; praticamente un'anticipazione di morte, se è vero che l'attività multiforme del lottare e del creare si identifica con la volontà di vivere e quindi con la vita, mentre la morte è annullamento dell'individualità quale appunto si estrinseca in questa nostra perenne illusione di lottare e di fare. (...) C'è pianto e dolore e vertigine grande anche nella villetta della Lucchesia, sul poggio che guarda il Serchio, alta, rivolta al tramonto del sole. Ci sono, sì nella Lucchesia e sì nella Sabina figure oneste e venerande di contadini dall'anima viva di una eterna sapienza. Ma in Ofello, Orazio identifica se stesso e c'è un'equazione completa fra le due anime; Zi' Meo, tu lo vedi subito come qualche cosa che il poeta ammira ma da cui si sente lontano. E non c'è, nel finale del "Ciocco", neppure il tentativo di una equazione. C'è messo di fronte il vertiginoso vacillare di quell'anima d'uomo che è ritenuto un sapiente, di fronte alla sicurezza tranquilla e grande di quel contadino che è invece veramente sapiente. E Zi' Meo fa pensare a Platone Karatiew di "Guerra e Pace". - E questa perenne aspirazione alla pace, questo dubitare, questo vacillare, questa 'Sehnsucht' è ben petrarchesca (...).": ENRICO TUROLLA.